Dedico questo articolo al mio nipotino n° 1 che proprio oggi inizia il proprio iter scolastico.
La stesura di questo mio lavoretto da bloggeur è iniziata qualche mese fa.
Abbiamo portato a casa i nipotini.
È l’ultimo giorno di asilo. Il grande andrà presto a scuola.
Per la prima volta mi ha chiesto della mia vita nell’arte sanitaria; ha voluto sapere cosa facevo come dottore e dove lavoravo. Combinazione si stava passando proprio vicino all’ospedale dove lavorai e dove mi operarono la prima e la seconda volta.
Quell’Ospedale era nuovo di zecca e in quell’Ospedale mi trovai, nel marzo del 1980, a inaugurare, come anestesista, le nuovissime sale operatorie.
Il mio lavoro era quello dell’anestesista.
Ricordo che mi sentii lusingato a dover prestare la mia opera in quell’occasione. L’interesse era tutto professionale. In quell’occasione, che ben ricordo, ero molto più interessato alla buona riuscita tecnica di quanto stavo per fare, piuttosto che alla necessità di lenire la sofferenza del paziente. Anestetizzare qualcuno in un complesso nuovissimo di sale operatorie era come tagliare un nastro che introduce a una mostra o a una fabbrica… e l’ospedale è un po’ come una fabbrica!
Quando il nipotino mi chiese della mia vita professionale, pensai, purtroppo molto di più al mio ricovero.
Ho dovuto pensare a quel passato piuttosto “frastornante”; al momento in cui ebbi la conferma del cancro.
Nella vita esiste indubbiamente la fortuna e la sfortuna; esiste anche la capacità di rendersi conto che non sempre la sfortuna è tale. Molte persone decisamente fortunate imprecano a più non posso quando la fase fortunata rallenta andando verso la normalità facendo loro credere di essere “sfigati”.
Già l’avevo immaginato; il giorno però in cui mi sentenziarono la vera necessità di affidarmi al chirurgo a causa di un semplicissimo cancro, pensai proprio alla sfortuna.
Dopo aver fatto tutto il necessario burocratico, venne quel giorno per me “terribile” nel quale, per la prima volta nella mia vita di medico, e per giunta di anestesista, sarei passato dalla parte dei “pigiamati” obbligato a lasciar fare ai “camici bianchi”.
Il mio bellissimo e affettuosissimo nipotino mi fa ricordare, suo malgrado, quel momento tutto mio psicologicamente drammatico.
Quel momento in cui entrai in ospedale e incontrai l’infermiera che mi indicò in quale camera avrei dovuto andare, è profondamente impresso nella mia mente. In quel momento avrei voluto scappare. Fu uno di quei momenti che non dovrebbero mai verificarsi perché accadono solo agli altri.
Avevo visto frequentemente il volto smarrito di chi arrivava in ospedale sofferente e doveva ricevere le cure dalle persone della mia categoria.
Anni prima avevo percorso più e più volte quei corridoi col mio camice bianco e il mio fonendoscopio che mi permetteva di far parte della categoria degli ufficiali; ero salito e sceso innumerevoli volte su quegli ascensori alla ricerca del paziente al quale il giorno seguente avrei iniettato la pozione “magica” che l’avrebbe mandato nel mondo chimico dell’incubo; avevo utilizzato più volte quegli ascensori con la chiave che dava priorità assoluta chiamato a tentare di mantenere vitale un organismo (o un corpo) che era ormai arrivato alla fine dei suoi giorni terreni.
Mentre entravo in quella stanza con un solo letto, il mio, che odorava di pulito e che mi era stato gentilmente riservato, ricordavo anche come innumerevoli volte, alla fine di un’interminabile mattinata, immerso nella deleteria aria condizionata delle sale operatorie, potevo crearmi un velocissimo intermezzo per rifocillarmi e riscaldarmi le ossa. Sarei ritornato poco dopo a propinare altre droghe micidiali per la soddisfazione del chirurgo e il probabile benessere del mio prossimo.
Potevo anche ricordare gli anni passati in sale operatorie di altri ospedali dove dovevo saper fare tutto perché ero solo e non avevo diritto di aver paura.
Anche in questo momento sono solo. L’infermiera gentilissima che non conosco, ma che imparerò a conoscere, mi accompagna in camera. C’è anche mia moglie che soffre insieme a me. Ma io sono solo. Se potessi mi bloccherei tutto e mi metterei a fare la statua… così il male non potrebbe progredire e non dovrei utilizzare quel famigerato letto. Sono solo… ma non lo dico a nessuno.
Leggo su un sito dell’Ospedale S. Martino di Genova:” In Italia giornalmente circa 10.000 Anestesisti Rianimatori svolgono la loro opera in diversi settori, che vanno dall’assistenza anestesiologica in Sala Operatoria alle attività in Terapia Intensiva; dall’ambito della Terapia del Dolore al campo della Ossigenoterapia Iperbarica, all’assistenza domiciliare a Pazienti affetti da particolari patologie “critiche”…
Che esercito! Oggi sicuramente più numeroso che allora. Me ne capitò uno buono!
Nella mia situazione particolare non posso dire di aver avuto paura di morire; probabilmente ero terrorizzato al pensiero del dopo… anche considerando la diagnosi di partenza!
Svariate sono le ragioni per cui reputo interessante il ricordo di quei momenti; due in particolare:
La prima ragione, importantissima, è che ho imparato a conoscere i miei colleghi… specialmente per quel dopo a volte veramente difficilissimo.
La seconda ragione è che ho imparato qualcosa di unico e cioè che se si vuol fare il medico o anche lavorare a livello infermieristico bisogna usare l’amore.
È per questa ragione che posso considerarmi fortunato.
Perché fortunato? Perché malgrado svariate vicissitudini non sempre belle, al limite della potabilità, riesco a vivere in modo quasi normale ma con un bagaglio di esperienze veramente tale per cui potrei quasi soffrire di “Complesso di superiorità”.
Da quando ho cominciato a scrivere a tutt’oggi, è passato un po’ di tempo; oggi però, proprio oggi il mio nipotino va a a scuola. Oggi è il suo primo giorno di scuola. Sono sicuro che riuscirà bene… il che basta!
Un bellissimo momento di un mio ricovero, me lo diede proprio lui; e, ancora oggi quando lo racconto, mi commuovo:
Ero nel mio letto e lui mi venne a trovare con la mamma. Ero dolorante e ancora nell’impossibilità di alzarmi. Ma lui non lo sapeva, avrebbe voluto vedermi in piedi. Vide le mie pantofole, le prese e le mise silenziosamente sul mio letto; voleva che mi alzassi.
In quell’occasione aveva poco più di un anno.