LA RIPRODUZIONE DELL’ARTICOLO È VIETATA
Settimo Capitolo
La svolta
Claudio s’è stufato. Non ne può più. Non sopporta più l’idea di sentirsi dire che Livia è ipertesa. “Perbacco” pensa “Livia non è ipertesa. Il problema è cardiaco: è da ricercare in quella bradicardia e in quel bigeminismo che non le permette di camminare allungando il passo e non le permette di salire le scale se non un paio di gradini alla volta.”
“Si va ad acquistare un apparecchio;” dice a Livia “così potrò seguirti tranquillamente. Andiamo nella Farmacia Partellini dove c’è quella farmacista gentile che ti ha misurato la pressione qualche giorno fa. Anche se sembra un po’ falsa o invadente, s’è dimostrata affidabile”.
Fu così che Claudio e Livia diventarono proprietari di un apparecchio elettronico per la misurazione della pressione. Ben diverso da quelli col mercurio o con la lancetta che Claudio usava quando seguiva i pazienti durante le anestesie. Questo, alla fine della misurazione, “dice” anche qual è la frequenza cardiaca. Anche questo non esisteva; bisognava stare con le dita sul polso e avere un orologio coi secondi.
Quante volte Claudio stava decine di minuti con le dita sul polso del paziente addormentato, mentre parlava col chirurgo, magari in momenti di difficoltà. Non c’erano le macchine da guardare, c’erano i polpastrelli delle dita che facevano capire la situazione e stimolavano a una soluzione… se s’instaurava un problema. Proprio così; qualche volta, dipendentemente dal tipo d’intervento, per conoscere e capire le condizioni del paziente, l’anestesista aveva a disposizione un avambraccio e una mano, nonché un manicotto per la misurazione della pressione piazzato precedentemente sul braccio fra il gomito e la spalla. Che dovesse arrangiarsi, come si suol dire, faceva parte del gioco. Viene da sé che, col tempo, era sufficiente “auscultare” il polso per inquadrare la situazione del momento. Ma questa situazione poteva cambiare da un momento all’altro, non era statica e bisognava essere pronti a reagire.
Claudio era solito dire che in anestesia, durante un intervento, potrebbe non succedere nulla nello spazio di qualche ora… e poi… potrebbe succedere di tutto nello spazio di pochi istanti e, se per qualche ora ci si è sentiti inutili, in quei momenti bisogna fare “tutto” nel modo giusto.
Ora Claudio misura frequentemente la pressione a Livia. Ma la pressione è raramente oltre la media; la frequenza del polso talmente bassa per cui la “macchina” non lo segna.
Viene la sera e Livia, prima di andare a letto, prende come quasi ogni sera il suo lassativo. Un lassativo a base di erbe, in un certo senso perfettamente naturale, apparentemente innocuo; così innocuo per cui, non solo non è necessaria la ricetta medica, ma nessuna cassa malati lo rimborsa. È uno sciroppo che ha un buon gusto e viene usato regolarmente in una Clinica di Lugano che va per la maggiore. Fu in quella Clinica che Claudio conobbe quello sciroppo quando, come paziente, fu operato dall’amico Borgonuovo.
Quello sciroppo prevede l’assunzione di qualche bicchiere d’acqua… dopo lo sciroppo. È qui che accadde quello, perché no, stupendo giro di boa che avviò con certezza Livia verso il benessere.

LO SCIROPPO.
Mentre Livia beve l’acqua dopo lo sciroppo dice: “Non capisco cosa mi sta succedendo; non riesco a deglutire l’acqua, non riesco a mandarla giù, mi fa male in esofago, mi fa male come se in esofago (che si trova prima dello stomaco) ci fosse una lesione. Non so cosa devo fare.”
Il primo pensiero è l’esistenza effettiva in esofago di una lesione… da indagare. Il modo migliore, e oggi sicuramente unico, è un’esofagoscopia.
Certo che, in questo caso dover pensare anche a una lesione in esofago diventa un vero dramma, non facile da sopportare. L’organismo di Livia è diventato fragile e non ha bisogno di un’indagine di questo tipo sicuramente stressante.
È sera e Claudio, piuttosto sconfortato, comincia a pensare al peggio. Livia sta prendendo le gocce già da un po’ di tempo. Anche se la pressione non è alta, questa difficoltà a deglutire l’acqua è veramente sconcertante.
“Però… però” pensa Claudio “a Livia fa male bevendo l’acqua, la semplice acqua, e dopo aver preso lo sciroppo. Che ci sia un nesso logico? Impossibile, lo prende da svariati mesi e ha sempre funzionato bene. Ma se lo prende regolarmente da svariati mesi, perché non si dovrebbe pensare che potrebbe aver sviluppato un’intolleranza a uno o più componenti dello sciroppo?”
Per fortuna Claudio conosce perfettamente il problema delle intolleranze alimentari; quelle che per la Medicina Accademica sono più o meno come le allergie o si esauriscono all’intolleranza a lattosio e/o glutine (che però non sono vere intolleranze).
Le intolleranze sono un’altra cosa, e sono anche piuttosto subdole, dato che possono esistere proprio per quegli alimenti che si assumono più frequentemente e con maggior piacere. E Claudio non può non ricordare quel nipote, il figlio della sorella, al quale fu intimato di sospendere ogni “vasca”… essendo lui un pallanuotista impegnato anche agonisticamente.
Cosa gli era successo?
In occasione della periodica visita medica gli fu riscontrata un’aritmia cardiaca, e, conseguentemente, ulteriori accertamenti. Claudio, che si trovava da quelle parti, poté “vederlo” con spirito kinesiologico e riscontrare un’intolleranza al frumento, con necessità (o utilità) di sospendere l’assunzione di ogni alimento contenente frumento; quindi… pane, pasta e pizza. Il nipote, pur dispiaciuto di non poter più mangiare la quasi quotidiana pasta asciutta, accettò di buon grado il consiglio dello Zio e si sottomise ai vari esami diagnostici della Medicina Sportiva. Per fortuna non gli fu consigliato alcun medicamento e, mentre il tempo passava e l’organismo si “disintossicava” dal frumento ingerito in tanti anni, l’aritmia cardiaca diventò un ricordo e, dopo circa sei mesi, poté riprendere l’attività agonistica.
Ovviamente, i “Luminari” della medicina sportiva non vollero assolutamente neppure ipotizzare l’esistenza di un’intolleranza alimentare alla base di quell’aritmia cardiaca. Infatti quando la sorella di Claudio comunicò ai medici la possibilità dell’esistenza di un’intolleranza al frumento, fu considerata una visionaria.
Lo sciroppo assunto da Livia è, in ultima analisi, un alimento… o la miscela di alimenti… in ogni caso non sintetici. Claudio, prima di continuare a pensare, prende Livia e col flacone dello sciroppo, grazie a una kinesiologia spicciola, può prendere atto, con sicurezza quasi matematica, che quello sciroppo non va bene a Livia, per cui si può parlare di intolleranza.
È questa la svolta; un clamoroso giro di boa. Se Livia non avesse detto che non riusciva “a mandar giù” l’acqua dopo aver preso lo sciroppo e Claudio non avesse captato quello che il corpo di Livia voleva dire, probabilmente… chissà come sarebbero andate le cose.
Credo possa essere molto importante cominciare a distinguere la differenza fra l’allergia e l’intolleranza, in questo caso “alimentare”.
Vorrò introdurre l’argomento con una specie di storiella più che vera e frutto dei trascorsi terapeutici di Claudio.
È un caso particolarmente rappresentativo e interessante risalente agli anni 80 del secolo scorso:
Una ragazza dell’età di 28 anni soffre da qualche anno di crisi di panico con coinvolgimenti anche a livello cardiaco (tachicardie e difficoltà respiratorie di tipo ansioso). Attraverso le indagini del caso si scopre che è intollerante al frumento. Sentirsi dire che deve abbandonare tutti quegli alimenti dove si trova il frumento, mette in un certo senso, ancora di più in crisi la persona. Di fronte all’evidenza dei fatti accetta il discorso ed elimina tutti quegli alimenti che contengono frumento. Un’analisi più approfondita a livello inconscio dimostra che all’età di 3 anni, mentre mangiava un piatto di pasta asciutta, subì, da parte della madre, uno stress molto intenso. Da quel momento “memorizzò” il frumento e, molti anni dopo, per delle ragioni di scarso interesse terapeutico si trovò di fronte a una situazione stressante che scatenò la patologia.
Nel caso riportato, dopo alcuni mesi di astinenza al frumento, la paziente ritrovò uno stato di completo benessere e l’intolleranza al frumento “svanì”.
L’esempio citato per sommi capi dimostra come un semplice alimento può “gestire” una patologia complessa e terapeuticamente difficile. Dimostra altresì che l’alimento produce un consistente coinvolgimento di organi distanti dall’apparato digerente, ma raggiunti attraverso il cervello o più correttamente la psiche, o più correttamente ancora l’inconscio.
Quello riportato è solo un esempio molto significativo nel quale è stato possibile mettere a fuoco il problema.
Non sempre è possibile analizzare alla radice il problema; ma questo non significa che “per tutta la vita” quell’alimento dovrà essere vietato.
Non è neppure detto che sia necessario andare sempre alla radice.
Questo caso ci introduce all’importanza dell’argomento, e cioè che un alimento, o più alimenti, possono portare a disordini non indifferenti.
Per distinguere con semplicità un’allergia da un’intolleranza, si può dire che un’allergia produce una reazione immediata o quasi, mentre un’intolleranza produce rarissimamente qualche disagio immediato; il più delle volte sembra che faccia bene, ma in modo solo apparente.
L’esperienza, ormai pluriennale di Claudio dimostra che le intolleranze alimentari, almeno quelle importanti, nascono nel nostro inconscio, in quella parte cioè del nostro “cervello” che non può sottostare al condizionamento della nostra volontà.
È questa una possibile definizione di inconscio:
Ciò che non affiora allo stato di coscienza e pertanto non è soggetto al controllo della ragione e della volontà.
Ma come può instaurarsi un’intolleranza ?
In queso modo :
Quando noi iniziamo un pasto o semplicemente « sentiamo », anche col pensiero il profumo piacevole di un alimento, non pensiamo assolutamente al fatto che in noi c’è una componente chiamata inconscio che può interagire subdolamente col nostro pasto o pensiero di pasto.
Il processo digestivo inizia concretamente quando introduciamo in bocca un alimento. Dopo averlo masticato, l’alimento viene deglutito, raggiunge lo stomaco e attraverso l’intestino viene « digerito ».
Questa fase importante della nostra giornata, volenti o nolenti, ci collega al nostro invisibile ma potentissimo inconscio che, dotato di formidabile memoria, analizza l’alimento, ne può analizzare i componenti, e, molto silenziosamente, riesce, se necessario, a collegare l’alimento (o uno dei componenti) a eventuali situazioni stressanti del passato, anche molto lontane nel tempo.
Se trova un collegamento, cioè se ci sono dei ricordi stressanti che si possono mettere in relazione a quanto ingerito, il nostro inconscio, per il momento, rimane perfettamente tranquillo e aspetta. Cosa attende?
Un semplice esempio : « Pinco Pallino aveva avuto una bambinaia tedesca decisamente severa, quasi cattiva, che consumava molto caffè. Pinco Pallino, dopo l’adolescenza e l’Università diventò adulto ed entrò nella cosiddetta vita di tutti i giorni.
Ha una moglie e tre figlie. Beve giornalmente con grande piacere alcuni caffè… finché un bel giorno, mentre si trova al bar a sorseggiare il solito caffè in compagnia di colleghi di lavoro, sente una persona, che non conosce e che si trova un po’ più in là, parlare tedesco con un timbro di voce molto simile a quello della bambinaia ; si ricorda, ma solo inconsciamente, delle cattiverie subite durante l’infanzia e da quel momento comincia a riesumare le paure subite. Sulle prime non accade nulla, ma, perdurando il consumo di caffè, entra in azione la somatizzazione delle paure che si scatena con scariche improvvise di diarrea ».
Quindi l’inconscio attende di analizzare se in futuro quell’alimento verrà nuovamente introdotto. Se quell’alimento « incriminato o non gradito » verrà introdotto ancora o addirittura con regolarità, l’inconscio, poco alla volta, senza fretta, reagirà e stimolerà l’organismo a produrre dei disturbi che potranno avere degli adentellati con lo stress del passato, cioè dei disturbi somaticamente « simili » oppure indirizzati verso i nostri organi più deboli (in latino: locus minoris resistentiae).
L’interessante di questo processo è che, il più delle volte, l’alimento « non gradito » dall’inconscio è graditissimo dal proprietario, nel senso che gli sembra di non poterne fare a meno. Altre volte l’alimento al quale siamo intolleranti viene catalogato : « Non mi piace ; non riesco a mangiarlo ; è tantissimo tempo che non ne mangio ».
In poche parole, grazie a questo meccanismo, dopo che l’inconscio è riuscito a mettere in atto un certo tipo di patologia, ogni volta che noi assumiamo quell’alimento (anche se mascherato) il nostro inconscio lo trova e ci punisce intensificando il disturbo.
Cosa significa praticamente tutto questo ?
Significa che, se siamo intolleranti a un determinato alimento che mangiamo spesso e volentieri, il nostro inconscio ci punirà facendoci ammalare, il più delle volte in modo cronico.
Un disturbo del ritmo cardiaco, una cefalea, un’artrite o addirittura una psicosi possono avere come causa o concausa proprio quell’alimento che gustiamo con particolare piacere.
È quell’alimento, proprio quello che è necessario ricercare e, se necessario trovare.
Il discorso sulle intolleranze sarà completo quando verranno prese in considerazione le Intolleranze al lattosio e al glutine della Medicina Accademica.
Livia, ovvero l’organismo di Livia, fece comprendere a Claudio che quello sciroppo non andava bene; ma non lo fece con lo sciroppo, bensì con l’acqua, con la semplice acqua che dovrebbe andare sempre bene. Lo fece con l’acqua perché altrimenti l’interpretazione sarebbe stata troppo semplice. In ogni caso è chiaro che non era un’allergia dal momento che Livia assumeva da lungo tempo quello sciroppo.
Read Full Post »